Bentornati, avventuriere e avventurieri assetati di conoscenza, a un nuovo appuntamento con le opinioni scomode di Kentel! Dall’autore che vi ha detto perché Sylvanas era un bel personaggio, prima che il narrative team decidesse di trasformarla nell’ombra di sé stessa, oppure perché un redemption arc per Arthas sarebbe a dir poco una follia senza senso, oggi un’altra riflessione che potrebbe far storcere il naso a molte persone. Ma siccome questo non ci ha mai fermato, eccoci qui di nuovo!
Tutto nasce da un articolo recentemente pubblicato su Wowhead nel quale si sottolineano le polemiche nate intorno al nuovo libro in uscita – poi ‘stranamente’ posticipato – ‘Exploring Kalimdor’, seguito o complemento ideale del già pubblicato ‘Exploring the Eastern Kingdoms’. Se non ricordate di che si tratta, qui c’è la mia videorecensione.
L’accusa sta principalmente nel fatto che il libro sarebbe pieno di stereotipi razziali. Zekhan e Rexxar, protagonisti della storia, ricalcano quanto fatto da Flynn Ventofermo e Mathias Shaw nei Regni Orientali, però stavolta nelle verdi foreste, nelle sterminate praterie e nelle giungle lussureggianti di Kalimdor. Parrebbe però che soprattutto Zekhan, da giovane sciamano troll, non sappia scrivere e abbia quindi dovuto rivolgersi al Lord Reggente Lor’themar Theron per trasporre in testo le avventure vissute nel continente. Questo, secondo i detrattori, striderebbe con l’antica cultura dei Troll, che invece è ricca di testimonianze scritte fin da secoli prima. Un’obiezione a un primo sguardo corretta, se non fosse che la scrittura era appannaggio delle classi sacerdotali e più abbienti – specie tra gli Zandalari – e, come qualsiasi società classista qual è ed era quella Troll, i più poveri erano comunque ‘condannati’ a una certa mediocrità. Lo sciamano dimostra poi di ignorare alcuni termini che riguardano anche gli Elementi, come ‘erosione’ – che Zekhan dice esplicitamente di non conoscere prima che Lor’themar glielo insegnasse. Uno sciamano, dicono i detrattori, dovrebbe conoscere bene cosa fanno Acqua, Terra, Fuoco e Aria – anche linguisticamente. Giusto? Peccato, io ero rimasto alla cara vecchia comunione puramente spirituale con gli Elementi – che tra l’altro parlano e scrivono in Kalimag, volendo proprio fare i linguisti – ma probabilmente mi è sfuggito per tutti questi anni che su Azeroth c’è l’esame di maturità per sciamani, con tanto di saggio breve in lingua Comune.
Tornando al libro, ci sono diversi punti in cui i Goblin vengono descritti come avidi e senza scrupoli, anche utilizzando stereotipi tipici della propaganda antisemita quali l’avvelenamento dei pozzi. Anche Sparachiodi emerge insolitamente simile a Gallywix: avido, spietato e arrogante. Insomma, il volume – secondo i detrattori – sarebbe un concentrato di stereotipi BIPOC (acronimo per ‘black, indigenous and people of color), soprattutto nei confronti di Troll, Orchi e Goblin.
Non è un mistero per nessuno che le razze di Azeroth siano ispirate, a grandi linee, per culture e usanze, alle reali popolazioni del mondo. Gli Umani, nella tipica connotazione fantasy che li caratterizza, sono presi dalla società tardo medioevale/rinascimentale del Centro Europa. I Nani hanno derivazioni scozzesi e irlandesi. I Worgen dall’Inghilterra elisabettiana. I Tauren richiamano gli indiani d’America, i Troll i giamaicani e le popolazioni delle isole caraibiche, gli Orchi hanno chiarissimi richiami alla cultura afroamericana. Si tratta di un fatto noto, che sicuramente proviene da un tipo di narrazione un po’ passatista e nata in anni in cui non c’era la stessa sensibilità sociale di adesso. Ciò non di meno, sempre di fatto si tratta. Come è un fatto che l’ispirazione non sia una corrispondenza uno a uno: gli Orchi non sono gli afroamericani, come i gli Umani non sono gli europei del XV secolo.
Il problema di voler vedere sempre il marcio in ogni cosa, magari per avere un po’ di visibilità social, è che ci si dimentica del perché, invece, alcune narrazioni sono strutturate in certe maniere. Basterebbe riflettere un po’ di più, invece di correre a fare i social justice warrior su Twitter. Da sempre – fin dai tempi del primo Warcraft – in Azeroth il tema della diversità è affrontato con le sue luci e le sue ombre. Come grande specchio metaforico delle culture umane, il fantasy le rappresenta con i loro pro e contro: gli Umani, ad esempio, sono di norma intrinsecamente razzisti in varie forme e in vari racconti. Gli Elfi del Sangue avrebbero qualcosa da dire in merito. È uno stereotipo rappresentare l’uomo bianco come intrinsecamente razzista? Forse. O forse no, perché quella occidentale è una cultura privilegiata, colonialista, patriarcale… O, nel caso di Warcraft, è magari solo una semplificazione narrativa funzionale a quello che la storia vuole raccontare: la persecuzione di un popolo e la dissoluzione dei valori di un altro che ha perso le sue guide più alte. Allo stesso modo, gli Orchi – la cui caratterizzazione viene dal fantasy tolkeniano, che a sua volta si ispirava alle popolazioni guerriere nomadi della Mongolia – hanno sempre avuto la caratterizzazione di popolo tribale, violento e assetato di sangue. È razzista dire questo? È uno stereotipo? A opinione di chi scrive, non più di definire analfabeta un giovane troll di neanche vent’anni cresciuto come discepolo dello sciamanesimo. Semplicemente, è un fatto. Tra l’altro, Zekhan è analfabeta in lingua Comune, una sorta di ‘inglese’ tramite il quale i popoli di Azeroth possono comunicare tra loro abbattendo le barriere linguistiche. A nessuno dei detrattori è venuto in mente che, forse, Zekhan non sappia scrivere in una lingua non sua, ma sappia invece farlo in quella Troll. Ma lo scopo del suo viaggio con Rexxar era quello di renderlo pubblico, e per farlo arrivare a più persone possibile è meglio scrivere in un linguaggio diffuso. Zekhan ha avuto bisogno di imparare una nuova lingua, una nuova grammatica, un nuovo alfabeto. E Lor’themar, reggente di Silvermoon, gliel’ha insegnato. Ha trovato tempo e modo. Perché era importante.
Forse si, dire che un troll non sa leggere e che il ‘giusto principe elfico’ deve insegnarglielo è uno stereotipo. Il mito del Buon Selvaggio in chiave Azerothiana, pure con una sgradevole sfumatura colonialista. Io preferisco però vedere la chiusura di un ciclo d’odio che dura da secoli: un Elfo e un Troll seduti insieme allo stesso tavolo, a condividere conoscenze. Chiunque conosca un po’ la storia di Azeroth dovrebbe cogliere la poesia di questo momento. Così come chiunque abbia un minimo di nozioni in sociologia dei processi culturali – come ce le ho io: grazie, stupida laurea triennale! – dovrebbe sapere che non esistono tratti culturali ‘buoni’ e ‘cattivi’: è una differenziazione metodologica ed epistemiologica errata, questa, che sta sempre e solo nell’osservatore, il quale riversa nei fatti i propri preconcetti morali ed etici analizzandoli di conseguenza. La realtà però è un’altra: ciò che è accettabile per una cultura potrebbe non esserlo per un’altra. Senza andare a parlare dei sacrifici umani rituali aztechi, basta pensare al fatto che in Cina è considerato educato – anzi, auspicabile – ruttare a tavola per esprimere compiacimento. Provateci voi al cenone di Natale, e ditemi poi se la zia che non vedete da un anno avrà approvato gioiosamente o no.
Per come la vedo io, il problema è semplicemente questo: trovo questo specifico tratto culturale sconveniente, spiacevole, ‘brutto’? È uno stereotipo! Lo trovo interessante, conveniente anche per una certa narrazione, ‘bello’? Allora è una qualità! Un po’ come il caro vecchio adagio: “I miei sono diritti, i tuoi sono privilegi”.
Forse, e dico forse, usare archetipi culturali nella narrativa pop è solo una necessaria iper-semplificazione. La complessità dell’esistenza umana è molto difficile da ridurre nella finzione scenica, ma bisogna anche essere oggettivi e dire che il team di World of Warcraft ha fatto e sta facendo tanto in tal senso, pure nei confronti della comunità LGBTQ+. Serve fare di più? Di nuovo, forse. Io credo davvero che dovremmo semplicemente imparare ad apprezzare i tratti culturali di ciascuno, come singolo e come parte di un popolo, e iniziare ad abbracciarli nella loro interezza, perché la realtà è sicuramente complessa, ma ‘buono’ e ‘cattivo’ sono anch’essi costrutti culturali. Basati, tra l’altro, sull’ambiente in cui si viene cresciuti e su consuetudini radicate nelle tradizioni e nelle convinzioni sociali. E questo, Nietzche insegna, non li rende certo assolute verità: piuttosto, deduzioni e induzioni soggettive.
La bellezza della diversità sta proprio nella grande metafora che le razze classiche del fantasy sono in grado di rappresentare in maniera così efficace, facendo da specchio alle culture umane nella loro interezza e complessità. O quasi, almeno, con tutti i limiti di un mezzo narrativo di finzione. E se – da uomini bianchi occidentali – davvero non ci piace essere ridotti solo a persone intrinsecamente razziste, forse dovremmo iniziare a domandarci perché succede, e soprattutto cosa possiamo fare per migliorare questa percezione, invece di prendercela con il Tarantino di turno perché ha messo in scena una razzia di cappucci bianchi.